Premessa

Questo saggio, derivato da una relazione tenuta al Congresso michelangiolesco del giugno 1964, fu pubblicato in volume nel 1965 presso le Edizioni dell’Ateneo di Roma, ma ebbe una diffusione quasi esclusivamente romana. Sicché esso rimase per un pubblico piú vasto pressoché inedito e tanto piú volentieri ho accolto l’offerta dell’editore Einaudi di riproporlo, nella PBE, con alcune modifiche e molte correzioni, in occasione del centenario della nascita di Michelangelo. Ho aggiornato la bibliografia e ho riveduto i passi citati delle lettere sull’edizione critica dell’Epistolario della edizione Sansoni, naturalmente fino all’altezza del III volume finora pubblicato, mentre per le lettere successive al 1533 mi son potuto ugualmente servire dello stesso nuovo testo critico, anticipatomi gentilmente da Renzo Ristori che cordialmente ringrazio.

Desidero solo aggiungere che se questo saggio è nato da una già dichiarata occasione, in realtà esso ben corrisponde a una mia antica fortissima attrazione per Michelangelo (non solo scrittore[1]) e a una generale mia fondamentale preferenza per la forza, l’energia, la tensione, di cui Michelangelo, anche come scrittore, è altissimo esempio, caso quasi sconcertante nella nostra storia letteraria rispetto alla tradizione di tipo petrarchesco-catartico («perché cantando il duol si disacerba»). Sicché questo saggio si inscrive nella linea piú congeniale della mia personale «poetica»[2], tanto che non saprei citare molti versi che mi muovano cosí nel profondo del mio essere quanto quelli della terzina isolata che qui ripresento quasi ad emblema altissimo della grande personalità eroico-lacerata di Michelangelo, e di ciò che essa dice ad un lettore capace di intenderne, al di là di ogni riferimento religioso, l’appello profondo ad una prospettiva tanto sofferta e consapevole delle «offese» del «mondo», quanto, perciò, virile e strenuamente immedesimata con gli alti valori che la giustificano e la impegnano nella dura storia degli uomini:

Come fiamma piú cresce piú contesa

dal vento, ogni virtú che ’l cielo esalta

tanto piú splende quant’è piú offesa.

Roma, 4 maggio 1975.


1 Dello scrittore mi ero comunque occupato in occasione di una mia recensione in «Leonardo», 1941, al volume di V. Mariani, Poesia di Michelangelo, Roma, 1941, recensione che si avvaleva anche del confronto fra le Rime di Michelangelo e la traduzione di Rilke, e, d’altra parte, il mio saggio del ’65 pur si legava a un mio interesse per la lirica cinquecentesca, al di là della semplice «etichetta» del petrarchismo già applicato in alcuni studi critici su lirici del Cinquecento (Della Casa e Stampa), pubblicati nel volume Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693. Del resto nella mia formazione piú giovanile non mancò di incidere una forte influenza della zona vociana piú alta (non Papini, che pur fu biografo ed editore delle Rime di Michelangelo nella prospettiva della «cultura dell’anima»), in cui Michelangelo era stato un essenziale punto di riferimento alla preferenza del «grande» rispetto al «bello» (si veda almeno il canone dei «grandi» in Slataper, Partage de midi, in «La Voce», 12 settembre 1912, ora in Scritti letterari e critici, Milano 1956, p. 267).

2 Per la mia prospettiva metodologica rimando al volume Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963, 19757; per l’esito critico piú recente e intero di tale prospettiva rimando al volume La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, 19742; per elementi di autodefinizione della mia poetica nelle sue ragioni piú personali rimando al mio breve autoritratto in Ritratti su misura, a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960, e allo scritto sulla mia città natale – Perugia – , col titolo Il vento a Porta Sole, nel volume Umbria della collana «Tuttitalia», Sadea-Firenze, Sansoni, 1964.